martedì 12 giugno 2018

Cronache ordinarie di (s) umanità

Lampedusa, Porta d'Europa (2012)
Sono giorni difficili, complicati, tristi. Non mi riconosco nel pensiero che sembra essere dominante, nell'egoismo fine a sé stesso, nella mancanza di solidarietà umana che sembra pervadere il nostro paese. Mi chiedo come siamo potuti arrivare a tanto, di chi siano le responsabilità, cosa abbiamo sbagliato e cosa ho sbagliato io. Risposte ce ne sono tante, ma piuttosto che avventurarmi in analisi sociologiche e geopolitiche, vi voglio raccontare un piccolo episodio, emblematico, del quale sono stato testimone. 
“Non sono razzista”. Esordisce così la signora che mi sta seduta di fronte. Il cameriere ha appena portato un piatto ricco di ogni ben di Dio, pesce di tutti i tipi. È solo l’antipasto e già pregusto il resto del banchetto. 
“Però ogni volta che mangio pesce non posso non pensarci”, prosegue la signora. “Ci hanno tolto pure il piacere di mangiare il pesce. Nella nostra famiglia prima si mangiava due o tre volte a settimana, adesso prendo solo quello surgelato che viene dal nord Europa”. 
Annuisco sorpreso e sorridente, non capisco dove vuole andare a parare la signora con queste parole, ma soprattutto con la premessa “Non sono razzista”. Appena il cameriere serve il risotto alla pescatora, la signora prosegue con le sue esternazioni. 
“Noi viviamo a Siracusa e di pesce fresco se ne pesca abbastanza. Compravo sempre il pesce azzurro: sarde, acciughe, sgombri. Da quando però ci sono tutti questi immigrati sui barconi, non lo compro più il pesce fresco”. 
La guardo incredulo. “Come mai?”, le chiedo. 
“Vede, non passa giorno che non si sente di qualcuno di questi neri che annega in mare. Sicuramente i pesci trovano quei corpi e si scialano a mangiare e a me il solo pensiero mi fa venire il vomito. Mi schifìu a mangiare il pesce pensando a cosa possono aver mangiato!” 
Un gambero del risotto mi si piazza tra la gola e la trachea e non vuole saperne di muoversi da quella posizione. Tossisco, arrossisco, mi danno da bere un po’ d’acqua. Piano piano mi riprendo. La signora, sollevata, continua le sue esternazioni. 
“Quant’avi ca ci sunnu ‘sti niuri, non si raggiuna cchiù! Mi livaru puru u piaciri di manciari u pisci du nostru mari! Ai semafori se ne incontrano di tutte le razze, ma quando vedo quelli neri mi spavento e mi arrabbio!” 
È troppo per me. Fingo un nuovo strozzamento, tossisco e mi alzo da tavola. Vado fuori a prendere aria. È sera, il ristorante è sul mare e si vedono le barche dei pescatori a largo. Decido di rientrare. Prometto a me stesso che non dirò nulla, cambierò discorso, tanto sarebbe inutile. Non voglio rovinare la cena ai commensali. La signora mi chiede se mi sono ripreso, ma non capisco se ha a cuore la mia salute o vuole solo riprendere il discorso. Ricomincia: 
“Lei non deve pensare che sono razzista, perché queste persone mi fanno pena, però sarebbe meglio che se ne stessero a casa loro, senza importunarci. Noi, siamo gente altruista. Lo vede a mio figlio, per più di un mese si è alzato tutte le notti per curare un gattino che stava male. Con una cannuccia gli faceva pure il clistere a quella povera bestiolina. Per fortuna lo ha salvato e si è poi ripreso e se lo vede adesso è tantu beddu!”. 
I camerieri portano la torta nuziale. Ne approfitto per alzarmi e andare via, non ho più né fame, né voglia di festeggiare. Guardo il mare, le barche, le lampare. Penso ai quegli uomini e quelle donne, ai loro bambini in balìa delle onde, alla loro speranza di giungere in una terra bella e accogliente che gli consenta solo di vivere. Loro non sanno ancora di avere inciso così profondamente nel cambio di dieta della signora, ma soprattutto non sanno della loro sfortuna, quella di non essere nati gatti.

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