lunedì 15 dicembre 2014

Anestesia. Unica difesa per l'insoddisfazione?



Una caratteristica del nostro tempo: l'insoddisfazione. In famiglia, a lavoro, a scuola, addirittura durante il tempo libero e lo svago, in ogni contesto, l'insoddisfazione sembra permeare la vita di ciascuno di noi. Senza cadere in facili parallelismi nostalgici con il passato, mi convinco sempre di più che la vita semplice, legata armonicamente ai ritmi naturali, fatta di poche cose, era in qualche misura compatibile con il nostro codice genetico. Ritmi, rapporti, bisogni, emozioni venivano vissuti e assimilati secondo modalità conformi al dettato naturale per cui siamo stati creati.
Fino a pochi decenni fa, i contesti con i quali dovevamo relazionarci  erano pochi e  quindi i rapporti potevano essere gestiti con i tratti dell'umanità e della condivisione. La famiglia, il villaggio, il quartiere, erano i contenitori sociali ed affettivi dove trovavano accoglienza le gioie, i dolori, le attività. Il peso di un lutto o la felicità di un evento, venivano condivisi con il nucleo sociale che circondava la nostra esistenza, così da ricevere conforto e partecipazione. Le aspirazioni ad una vita migliore erano legate al soddisfacimento di bisogni primari: lavorare, mangiare, avere una casa, avere degli affetti, vivere nella comunità. Chi ci riusciva non aveva grosse recriminazioni nei confronti della vita e della società e poteva ben dirsi in pace con se stesso. Chi invece aveva negato anche uno solo di questi bisogni, si sentiva giustamente insoddisfatto, frustrato ed emarginato. Anche in questo caso, però, il contesto in cui viveva il malcapitato gli forniva protezione, assistenza e solidarietà. Gli stessi momenti di festa erano vissuti come autentiche manifestazioni di condivisione, nelle quali i sentimenti individuali di felicità, i timori, gli auspici, si mescolavano in un' unica espressione della comunità. Ci sentivamo protetti anche quando la fortuna ci aveva girato le spalle. Eravamo felici per la buona sorte, ma era ancora più bello esserlo insieme agli altri.

Quando è finito tutto questo? O meglio, quando è cambiato tutto questo? Non si può certo indicare una data precisa, ma è possibile individuare il contesto storico, economico e culturale nel quale è maturata la trasformazione radicale della società e della nostra vita.
La modernità ha portato indubbi miglioramenti alle condizioni di vita di noi tutti. Il suo impatto nella nostra vita, però, è avvenuto in maniera repentina, senza che avessimo il tempo di capire e adattarci a cambiamenti così radicali. In soli cinquant'anni abbiamo subito una rivoluzione nel nostro modo di vivere che era più o meno lo stesso da millenni e legato ai ritmi della natura, in armonia con l'ambiente in cui vivevamo. Il risultato è sotto i nostro occhi: non ce la facciamo! Il nostro organismo, il nostro pensiero, la nostra stessa natura non ce la fa, semplicemente perché le società figlie della modernità non sono fatte per noi umani. O meglio, non sono compatibili con il nostro codice genetico e quindi non possono essere assimilate così rapidamente. C'era la speranza che queste trasformazioni avvenissero con più armonia, con maggiore attenzione all'uomo, che si realizzasse davvero un progresso e non come diceva Pasolini "Uno sviluppo senza progresso".
Oggi ai contesti reali, all'interno dei quali si sviluppano le nostre vite, si sommano quelli virtuali dei quali tutti facciamo parte. Cellulari, tv, internet, media di ogni tipo amplificano avvenimenti, emozioni, bisogni, portandoli nelle nostre case e dentro di noi, anche se lontani dalle nostre vite reali. Addirittura ha poca importanza la veridicità di ciò che ci viene comunicato, l'effetto generato dalla stessa comunicazione è garantito comunque.

Tutto questo ci fa sentire addosso, più o meno inconsciamente, oltre alle nostre pene e insoddisfazioni, anche quelle del mondo intero. Ci sentiamo inadeguati e ci guardiamo attorno alla ricerca di quell'elemento essenziale che è fatto di condivisione e solidarietà prossima, vera, reale, che possiamo toccare, da cui farci toccare. Ma in questo nuovo mondo sembra non esserci spazio e tempo per i rapporti di prossimità. Nessuna nostalgia per un passato indistinto, ma consapevolezza di aver bruciato un'opportunità, distrutto un patrimonio, una cultura, quella popolare, che si era sedimentata durante secoli, millenni. Parole molto chiare ha scritto a questo proposito il regista recentemente scomparso Vittorio De Seta, che meglio di chiunque altro ha saputo fotografare ed analizzare il momento di passaggio dalla cultura popolare all'avvento della pseudo modernità:
"Sono scomparsi i parametri tradizionali della cultura dell'uomo che duravano da un milione di anni. Perché era un vivere insieme in villaggi di cinquecento persone, tanto è vero che l'uomo memorizza cinquecento fisionomie e cinquecento nomi nel suo cervello, non di più. Lavorare insieme, aiutarsi reciprocamente e produrre cultura. A quell'epoca cantavano tutti e se c'era qualcuno che cantava un po' meglio, nessuno gli chiedeva l'autografo. In un ambito poverissimo in cui tutto veniva fatto con le mani, paradossalmente, ogni oggetto era decorato: il vasellame, le selle, i carretti siciliani, le chiese, poteva sembrare uno spreco. E i canti, i dialetti ... Insomma tutti i legami con il territorio, con la lingua, con il costume. Anche in Sicilia si distinguevano gli abitanti di un villaggio da quelli di un altro dal modo di vestire e dal modo di parlare. Tutto questo è stato cancellato, praticamente c'è stato un genocidio culturale."

Ed allora che fare? Ancora una volta la natura, il nostro codice genetico interviene con un adattamento di emergenza che chiamerei ANESTESIA. Una scarica di anestetico che rende sopportabili gli effetti tossici della pseudo modernità. Sentimenti, gioie, dolori, aspirazioni, indignazioni, sembrano sopirsi di fronte al caos. Allora sembra farsi strada facilmente,  in questo corpo anestetizzato, il fluido imperioso ed inebriante del denaro, del consumo alimentato dai falsi bisogni, della finta condivisione e della finta solidarietà. Messaggi rassicuranti accompagnano ogni comunicazione: Stai tranquillo, se ti senti insoddisfatto c'è sempre qualcosa che può farti stare meglio... ed io posso vendertela! L'insoddisfazione è quindi il prerequisito necessario ed indispensabile per creare il perverso circuito bisogno - denaro - consumo, ripartendo sempre da una nuova insoddisfazione, fino all'infinito.

Dall'insoddisfazione all'anestesia il passo è breve. Forse un meccanismo di difesa naturale che si attiva per non soccombere. L'anestesia rende insensibili e può farci sprofondare verso gli abissi dell'indifferenza e della solitudine. A meno che, cosi come si fa davanti ad una persona che ha perso conoscenza, non si intervenga con schiaffi e carezze. Gli schiaffi ben assestati per farci recuperare il senso fisico, vero, delle cose. E le carezze... perché è di quelle che abbiamo più bisogno.

Franco Blandi

lunedì 30 giugno 2014

Morti ingombranti

Sono trascorse solo poche ore dall'ennesima tragedia. Trenta migranti morti sul fondo di un barcone, asfissiati da oltre cinquecento compagni di viaggio che si trovavano sopra di loro. Tra i sopravvisuti, tratti in salvo da una nave della Marina Italiana, ci sono bambini di pochi mesi, donne, giovani uomini. Nulla si sa ancora dei trenta che non c'è l'hanno fatta. Eppure quei morti già ingombrano, sono un problema da "risolvere" in fretta o da usare nel gioco delle parti dei politicanti nostrani. Lo sono per il sindaco di Pozzallo che dovrà accoglierli quando dichiara che non ha sufficienti celle frigorifere per accogliere i corpi. Lo sono per i mezzi di informazione, per i quali la notizia ormai non desta molto interesse, tanto da relegarla, dopo solo poche ore, in fondo ai notiziari. Sono ingombranti perfino per il nostro governo che durante i lavori del Consiglio dei Ministri ha dedicato un minuto di silenzio ed un messaggio di cordoglio. Silenzio e cordoglio, ma non per i quei trenta sventurati, ma per i tre giovani israeliani trovati morti dopo la loro scomparsa di alcuni giorni addietro. Può sembrare strano, ma anche la morte crea privilegi e discriminazioni. Non è poi tanto vero quello che diceva Totò nella sua celebre poesia "A livella". Non siamo tutti uguali davanti alla morte. Molti di quei trenta disgraziati rimarranno senza un nome, senza una sepoltura, senza l'umana considerazione che si deve agli esseri umani in quanto portatori di affetti, di storie, di speranze. Saranno solo trenta salme per le quali trovare una sistemazione, un luogo dove archiviarli, allontanandoli in fretta dalla vista, come si fa con la polvere sotto ai tappeti.

martedì 11 marzo 2014

Rappresentanza, rappresentati, rappresentanti


Foto di Gianni Berengo Gardin
Sono sempre stato convinto della necessità democratica di trovare nella società forme adeguate di rappresentanza. Ne ho sperimentato a tutti i livelli le svariate forme: partito politico, sindacato, amministrazione, associazione, gruppo. Ho apprezzato il piacere della condivisione delle idee, dei metodi, delle speranze e dei sogni. Ho apprezzato meno le dinamiche di protagonismo, imposizione, scarsa democrazia che a volte governano il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
Da qualche tempo le mie convinzioni e le poche certezze vacillano. In tutte le situazioni sociali nelle quali è richiesta l'apertura di un rapporto di delega, sia che si tratti di partiti politici, di associazioni di categoria o di altre consorterie, noto con tristezza e disappunto il radicarsi di comportamenti da parte dei rappresentanti, che poco o nulla hanno a che fare con le istanze e gli interessi del rappresentato. 
Conquistare la guida di un partito, di un sindacato, di un comune, di una regione, di uno Stato intero, così come di un piccolo gruppo, sembra avere a che fare esclusivamente con il consolidamento di basi di potere dalle quali costruire altro potere per se stessi e i pochi accoliti (quasi mai facenti parte della categoria che si è chiamati a rappresentare). Esempi se ne possono trovare tanti, ma adesso mi viene in mente un caso  di qualche anno fa, quando scoppiò lo scandalo del "Fatebenefratelli" di Milano, l'elefantiaca struttura ospedaliera con sedi in tutta Italia, "rappresentata" in nome e per conto dei "fratelli" da Don Luigi Maria Verzè. Personaggio eclettico e dinamico, il Don, che negli anni è riuscito a creare una incredibile rete  di potere criminale attraverso la quale, politici e imprenditori amici, hanno consolidato brillanti carriere e realizzato lauti guadagni, in barba ai fedeli, ai cittadini e ai malati per i quali agivano in nome e per conto. Questo è un caso eclatante, ma ce ne sono di meno noti, ugualmente contrassegnati dalla stessa identica smania di potere e denaro, il binomio che sembra ormai governare la società.   
La domanda a questo punto è: ma i rappresentati sono sempre vittime inconsapevoli dei loro rappresentanti? 
Ovviamente la risposta non può essere sempre la stessa. Ma una certa linea di tendenza ormai sembra essere tracciata. Infatti non sono poi così sicuro che tra i tanti cittadini che protestano a parole contro la "mala politica" non ce ne siano di quegli altri che affollano le segreterie dei politici a cui chiedere privilegi e illegalità. Lo spazio di intersezione tra le due tipologie io credo che sia drammaticamente sempre più ampio ed è in questo spazio che si gioca la partita malata tra il rappresentato e il suo rappresentante.   
Sempre più rari appaiono gli spazi dentro ai quali si ha l'onore di rappresentare e l'orgoglio di essere rappresentati.


martedì 14 gennaio 2014

Contenitori, contenuti, cellule impazzite.

Le imprecazioni, il disgusto, la disillusione nei confronti del potere politico e, ahimè, anche nei confronti delle istituzioni, è ormai entrato nel sentire quotidiano di ciascuno di noi. Le discussioni, i dibattiti televisivi, sono tutti incentrati su temi che a tutti noi appaiono sempre più distanti dalla realtà, dalla vita vera.  I titoli sono sempre gli stessi: le riforme istituzionali, la riduzione delle tasse, il lavoro per i giovani, lo sviluppo del Sud, la legge elettorale, la riduzione della burocrazia e via discorrendo. I contenuti, approssimativi, sono solo accennati nei sottotitoli, mentre non si ha traccia di approfondimenti e meno ancora di azioni decisive, di scelte nette che creino discontinuità con i decenni di malapolitica e di malaffare. L'ovvia indignazione si concentra spesso più sui contenitori e le categorie che sulle persone: i politici, i partiti, il parlamento, ecc. Eppure ci sarebbe da riflettere sugli aspetti sociologici che in Italia hanno consentito ad alcune persone, molto simili tra loro, di arrivare fino ai vertici di quei contenitori "istituzionali" in numero così elevato. Possibile che il nostro paese sia stato capace di generare dal nulla nello stesso periodo storico: Berlusconi, Grillo, Renzi, Bossi, Casini, Borghezio, Letta, Alfano? Microrganismi autosufficienti capaci di replicarsi e sopravvivere in tutte le condizioni? La natura ci insegna che a volte da cellule impazzite possono nascere delle mostruosità, ma solo quando le condizioni sono favorevoli e adatte si sviluppano "nuove" forme di vita. Quando però questo accade in maniera così massiccia, c'è da chiedersi se ad essere mutato non sia tutto il resto, il terreno che ha consentito lo sviluppo e il consolidamento di queste strane creature. Non sono molto ottimista, ma se una cellula prende coscienza, magari finisce con il contagiare il resto dell'organismo... e se tutte insieme lo vogliono, possono anche sconfiggerlo questo cancro.